Dimora storica, opera barocca di Gian Battista Vaccarini, fu costruito nel 1738 per la famiglia nobile dei Paternò, marchesi di San Giuliano.
Il palazzo ha dato alloggio a ospiti illustri come il re d’Italia Vittorio Emanuele III con la regina Elena, e ha subito diversi rimaneggiamenti che hanno lasciato pressoché integri solo i prospetti esterni.
Dal 1864 la cantina fu destinata ad Angelo Grasso, il quale vi adibì un teatro poi nominato “Machiavelli”. Dapprima sede dell’opera dei pupi, dopo pochi anni il teatro cominciò a offrire anche spettacoli con personaggi di Giovanni Grasso e Angelo Musco. Nei primi anni 10 fu chiuso, per riaprire soltanto nel 2010.

Palazzo San Giuliano conserva anche una storia misteriosa.

Tra le sue mura, infatti, si sarebbe consumato un delitto.
Nel 1777 andarono sposi Orazio Paternò Castello, Principe di San Giuliano, e Rosalia Petroso Grimaldi, baronessa di Pullicarini.
Rosalia era una giovane donna bella e di rara grazia con un gran numero di pretendenti attorno a sé. Una volta sposa di don Orazio, ancora sedicenne andò ad abitare nel palazzo di piazza Università. Geloso e ossessionato dall’idea del tradimento, Orazio teneva la baronessa segregata nelle stanze della casa familiare per accudire ai tre figli.
Il 15 marzo del 1784, durante una furiosa lite per gelosia, il principe di San Giuliano assassinò la moglie, sferrandole numerose coltellate. L’implacabile Orazio non si limitò a uccidere la sua sposa, ma colpì anche la cameriera personale di quest’ultima, poiché era accorsa in soccorso della padrona. La governate, sconvolta, si precipitò in piazza in preda alla disperazione.
Urlò a tutti il delitto commesso, e presto giunsero al palazzo due compagnie di granatieri per impedire a Orazio la fuga e per trarlo in salvo da un linciaggio certo. Il Viceré inviò a Catania il marchese Agostino Cardillo, suo vicario generale, per far luce sulla vicenda e trattenere l’uxoricida, che fu condannato a morte e i suoi beni confiscati.
Nonostante la drastica sentenza, il principe di Sangiuliano non pagò mai per le sue colpe. Potendo vantare di parentele potenti e influenti, si dileguò facendo perdere del tutto le sue tracce. Molte le congetture formulate in merito a questa scomparsa.
C’è chi lo vuole rinchiuso nel Monastero dei Benedettini, affranto dal senso di colpa, finendo i suoi giorni in lacrime; e chi lo vede fra i monaci solo per un appoggio strategico mentre organizza la sua fuga verso Malta.
La verità, comunque, sarebbe stata scoperta da Antonino di Sangiuliano, politico e diplomatico etneo, erede dei Paternò Castello. Egli durante un viaggio a Tripoli lesse un’opera di Richard Tully, il quale sosteneva di aver conosciuto un nobile siciliano, principe di Sangiuliano, che, convertitosi all’Islam per salvarsi la vita, sposò infine la figlia del pascià di Tripoli.
Nel frattempo in città si diffuse la notizia che gli eredi di don Orazio e Rosalia avessero fatto murare le finestre delle due stanze in cui era stato compiuto l’omicidio per mettere a tacere le voci sulla presunta infedeltà della madre. Con il passare del tempo, poi, la superstizione dei catanesi alimentò il mito secondo cui la bella baronessa fosse stata addirittura murata in quel luogo e che il suo fantasma privo di pace lo abitasse ancora.
La verità, però, è che la nobildonna non morì in quella zona del palazzo, bensì nella cosiddetta “camera rossa”, una delle stanze da letto della famiglia. Dietro i due balconi murati, pertanto, non si celava altro che la volta del salone sottostante.
Per chi fosse curioso, il volto di Rosalia è visibile in piazza Carlo Alberto, nella Chiesa del Carmine, dove l’effigie di Sant’Agata ha il suo volto, così come volle la famiglia, con gli occhi belli e il volto incorniciato da una corolla di capelli biondi.

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