Una cena, tre coppie, un amico, i loro telefonini al centro della scena, i segreti, la vita che va in pezzi per gioco e poi, forse, si ricompone. Come nasce Perfetti sconosciuti? Genovese parte da un semplice quesito: “Possibile che nessuno abbia fatto un film sulle relazioni governate dai telefonini? Su quello che affidiamo al mezzo: messaggi, foto, segreti?”.

A questa domanda di fondo somma poi altri argomenti: il tema della menzogna, di chi abbiamo veramente al nostro fianco, di quanto ci comprimiamo per non sembrare quel che siamo, di ciò che omettiamo per evitare di turbare la nostra quotidianità e quella degli altri. Lo spettatore entra in sala pensando di ridere e invece esce turbato. Nella sceneggiatura originale il film aveva un finale spietato, drammatico e senza speranza che lasciava la stessa amarezza di un thriller all’interno del quale l’assassino la fa franca. Paolo Genovese ha deciso di modificare leggermente le ultime scene, dando un contorno positivo all’intera proiezione ma lasciando comunque allo spettatore la possibilità di interrogarsi su ciò che ha appena visto. Un finale che gioca anche al paragone/citazione grazie ad una fede nuziale che gira su se stessa come la piccola trottola vista in “Inception”. Perfetti Sconosciuti è uno spaccato di vita quotidiana: dalla paranoia sul vino biodinamico da portare a cena a casa degli amici, al marito che si chiude al bagno col telefono per trovare il suo spazio in una casa popolata da moglie, due figli e madre/suocera rimasta vedova.

Quando inizia la cena, in pochi minuti, lo spettatore è seduto lì, a tavola con i protagonisti, simpatici, romanacci, cordiali e si ritrova nel giro di un’oretta ad assistere a uno psicodramma di gruppo, nel quale le identità multiple di ciascuno vengono svelate. Come? Grazie a un gioco che nessuno di noi accetterebbe di fare nemmeno in cambio di ciò che desideriamo più di ogni altra cosa, ovvero sia mettere gli smartphone sul tavolo e condividere con i commensali qualunque messaggio, whatsapp, email o telefonata fosse arrivata nel corso della cena. Ed è qui che, poco per volta, il film svela la sua vera natura, il suo messaggio.

La pellicola diventa morbosa e cattiva, perché con i suoi colpi di scena, aspettiamo che i personaggi crollino, uno per volta, rivelando una personalità di cui avere vergogna e che fino a quel momento era rimasta rinchiusa nello smartphone, scatola nera della nostra esistenza, celato a chiunque, soprattutto a chi ci vive accanto, a chi ci conosce da una vita. È qui che il film ci sfiora. Non siamo più semplicemente seduti a tavola con i personaggi della messinscena ma ne diventiamo protagonisti, poiché siamo nelle nostre vite interpreti della medesima pantomima. Ed è per questo che finiamo col riconoscerci in loro, finiamo col ritrovare il nostro vissuto, tipi umani che abbiamo conosciuto, amato, odiato, che siamo stati e che siamo diventati. La scrittura dei personaggi è eccellente, la sceneggiatura è plausibile e la credibilità generale è disarmante.

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